3 giugno 2025
Martedì della VII settimana di Pasqua – Memoria dei Ss. Carlo Lwanga e dodici compagni, martiri
Nella tradizione religiosa più antica, il ruolo dei sacerdoti è quello di mediare il contatto tra l’uomo e Dio. Il loro era e, in alcune religioni ancora è, un ruolo sacro. Era così anche per i sacerdoti del Tempio di Gerusalemme, finché non è stato distrutto ed è finita la pratica cultuale.
Non è così nella fede cristiana. Non abbiamo più bisogno di mediatori umani, perché Gesù ci ha reso possibile il contatto e l’incontro con Dio, e ha dato a tutti noi questa possibilità di vicinanza senza ulteriori mediazioni tramite il Battesimo.
Il Battesimo è il sacramento che ci rende un popolo di “sacerdoti”, cioè persone che possono vivere e testimoniare il contatto con Dio e condividerlo con il mondo e le altre persone. In questo incontro, poi, siamo coinvolti in una dimensione affettuosa talmente intensa che possiamo chiamare Dio con il nome di papà, babbo.
Tutti noi, quindi, abbiamo una funzione sacerdotale.
Nel vangelo di oggi abbiamo ascoltato l’inizio della preghiera sacerdotale di Gesù, quella che ricapitola il suo vissuto e il suo servizio di aprire la strada dell’incontro con Dio Padre ai suoi discepoli.
In questa preghiera, Gesù ci coinvolge nella sua opera sacerdotale. Ci consola il fatto che siamo racchiusi nella preghiera di Gesù. Allo stesso tempo, riceviamo due spunti per comprendere meglio anche il nostro servizio sacerdotale, che compiamo nella liturgia, in particolare nella messa.
Ricordiamo infatti, che il ruolo dei preti è quello di un sacerdozio “al servizio” del sacerdozio di tutti.
Il primo dono di Gesù è la conoscenza di Dio. “Conoscenza” è un termine molto importante, perché nella Bibbia non è un termine solo razionale o intellettivo, ma affettivo. È il termine dell’amore. Si conosce solo quando ci si ama intensamente.
Il secondo dono di Gesù è osservare la sua parola. Anche in questo caso, il termine “osservare” non esprime un’obbedienza morale, ma qualcosa di molto più vitale e concreto: significa dimostrare con la nostra vita che la parola di Dio è vera, permettere di essere concreta e che sia testimoniata al mondo.
Al termine di questo laboratorio corale, quindi, possiamo dire che curando l’espressione artistica della liturgia, attraverso la qualità della parte musicale e il canto, voi contribuite a questo compito “sacerdotale” in cui Gesù ci coinvolge e che vi affida. Perché la conoscenza affettiva è associata all’esperienza estetica, alle emozioni belle, a un’armonia e spesso la musica e il canto ci aiutano a fissare questi sentimenti e queste emozioni.
Inoltre, facciamo tutti esperienza che la musica ci aiuta a ricordare le parole, a interiorizzare un contenuto, a fissarlo e a farlo nostro più spontaneamente, quindi a fare esattamente quello che Gesù dice quando dice che ci insegna a “osservare la sua parola”.
Ci chiediamo quale esito abbia questo servizio nella liturgia, la grande preghiera sacerdotale della chiesa. Possiamo raccogliere l’esempio di Paolo, in quello che è considerato a tutti gli effetti il suo testamento spirituale, nella prima lettura, il saluto agli anziani di Efeso.
Paolo riassume il suo apostolato con le parole: “ho servito il Signore in tutta umiltà”. Il nostro scopo, cercando di rendere più bella, partecipata e sentita la liturgia, è quello di poter dire: “ho servito il Signore con umiltà”.
Il nostro compito nella liturgia non prevede che ci mettiamo al centro, che mettiamo davanti le nostre convinzioni o preferenze, o che proponiamo i nostri eccessi, ma di servire il Signore in tutta umiltà, desiderando rendere gloria al Signore, e aiutare chi celebra insieme con noi a sentire l’affetto per Dio e a interiorizzare e vivere la sua parola.